Leggendo i giornali in
questi giorni è difficile non essere pervasi da una certa
preoccupazione circa il futuro nostro e del nostro Paese.
La crisi che da molto
tempo ormai fa da cornice alle attività commerciali, politiche e
umane in generale, rappresenta ormai uno stato permanente e
(finalmente) nessun politico si sogna più di negarla.
Essa potrebbe essere
definita come un effetto collaterale della globalizzazione.
L'adeguamento di tutti i Paesi della Terra (o perlomeno la maggior
parte di essi) ad un modello di vita consumistico tipico dei Paesi
avanzati ma soprattutto la maggiore facilità di accesso alle
informazioni e i trasporti sempre più veloci stanno provocando una
trasformazione globale impensabile fino a pochi anni fa.
I paesi che negli anni
'90 venivano definiti “in via di sviluppo” sono oggi quelli in
cui l'economia cresce a ritmi più elevati, mentre i paesi
“sviluppati”, tra i quali il nostro, stanno rapidamente perdendo
la capacità di produrre ricchezza. Per rendersene conto basta
recarsi in qualsiasi negozio per constatare come la stragrande
maggioranza dei prodotti non alimentari provengono dall'estero, Cina
in primis.
Il mito della crescita
infinita dell'economia e quindi della ricchezza è, appunto, solo un
mito. La produzione di ricchezza si è ormai spostata verso i Paesi
emergenti (Cina, India, Brasile, Vietnam ecc...) e la finanza nei
paesi “ricchi” oramai è solo un gigante dai piedi d'argilla,
slegata in modo preoccupante dall'economia reale.
Domenico De Masi su La
Stampa del 3 gennaio scrive, tra l'altro, che “a Milano un
operaio costa 24 dollari, in Brasile 11, in Corea del Sud 4 e in Cina
solo 1 dollaro. Il primo mondo, l'Occidente, non serve più: il terzo
mondo si produce le cose da solo”. Si capisce quindi che le
cose non sono messe bene per noi ma che difficilmente potranno andare
meglio in futuro.
L'economista Eugenio
Benetazzo (che scrive anche nel blog di Beppe Grillo) sul Fatto
Quotidiano del 4 gennaio fa un'analisi dell'economia attuale del
nostro Paese, analizzando in particolar modo il ruolo delle banche.
Propone una nazionalizzazione degli istituti bancari per evitare che,
come succede oggi, gli istituti privati, stretti tra i rischi di
insolvenza dei clienti e i vincoli imposti dalla Bce, finiscano per
non prestare più denaro né a privati né ad aziende, andando a
deprimere sia i consumi che gli investimenti, quindi tutta
l'economia. Conclude amaro: “Eravamo poveri. Siamo stati ricchi.
Torneremo poveri”.
Meno drastico ma
ugualmente serio il monito lanciato da Wolfgang Uchatius sul
settimanale tedesco Die Zeit: “Negli ultimi anni le economie dei
Paesi avanzati hanno prodotto un benessere fittizio, alimentato da
consumi crescenti finanziati con il debito. La crisi ha dimostrato
che il sistema così com'è non funziona più. E' arrivato il momento
di cercare un'alternativa”. Poche parole di straordinaria
chiarezza e veridicità, che rendono bene l'idea della precarietà
del nostro benessere.
Il tema al centro del suo
articolo riguarda la crisi come effetto del rallentamento della
crescita economica, dovuto al calo dei consumi. Dagli anni del boom
fino grosso modo agli anni '90, la crescita continua ha garantito la
stabilità del sistema economico nonostante i grossi debiti contratti
sia da privati che da imprese, banche e Stati. Oggi che il sistema si
è “inceppato” propone due soluzioni: “La prima consiste
nello stimolare a tutti i costi la crescita per tenere in vita
l'economia, com'è successo finora, aumentando la spesa pubblica e di
conseguenza i debiti. La seconda […] consiste nel cercare le
risposte a domande più impegnative: la società si può organizzare
in modo da accontentarsi di conservare il benessere invece di
aumentarlo? Cosa bisogna fare perchè sia la felicità delle persone
a crescere e non il fatturato delle imprese?”.
Con una classe dirigente
emanazione dei gruppi industriali quale potranno essere le risposte a
questi interrogativi?
Il nostro tenore di vita
è quindi destinato a peggiorare inesorabilmente? Forse si. Ma non è
detto che ciò porterà solo conseguenze negative: magari non potremo
più permetterci di guidare un suv, non cambieremo il pc o il
telefonino ogni due o tre anni, impareremo a fare a meno di cose che
oggi consideriamo indispensabili. Dovremo ingegnarci più di oggi per
trovare un'occupazione e non avremo mai più le garanzie che molti
hanno oggi.
Se ci facciamo caso la
trasformazione è già in atto: pensioni, diritti dei lavoratori,
diritto allo studio, ecc... molto è stato o sta iniziando ad essere
messo in discussione. Anche gli spostamenti stanno diventando un
lusso: con la benzina che si avvia inesorabilmente verso i due euro
al litro ciascuno di noi dovrà fare più attenzione a spostarsi in
macchina. Purtroppo non va meglio ai treni, per i quali lo Stato
trova cifre iperboliche per finanziare progetti faraonici e
drammaticamente inutili (TAV) per pochi danarosi, mentre la classe
produttiva del Paese è condannata a viaggiare su convogli sempre più
affollati e con orari incerti.
Movimento 5 Stelle Valsesia