lunedì 16 gennaio 2012

L'inarrestabile declino dei Paesi avanzati?




Leggendo i giornali in questi giorni è difficile non essere pervasi da una certa preoccupazione circa il futuro nostro e del nostro Paese.
La crisi che da molto tempo ormai fa da cornice alle attività commerciali, politiche e umane in generale, rappresenta ormai uno stato permanente e (finalmente) nessun politico si sogna più di negarla.
Essa potrebbe essere definita come un effetto collaterale della globalizzazione. L'adeguamento di tutti i Paesi della Terra (o perlomeno la maggior parte di essi) ad un modello di vita consumistico tipico dei Paesi avanzati ma soprattutto la maggiore facilità di accesso alle informazioni e i trasporti sempre più veloci stanno provocando una trasformazione globale impensabile fino a pochi anni fa.
I paesi che negli anni '90 venivano definiti “in via di sviluppo” sono oggi quelli in cui l'economia cresce a ritmi più elevati, mentre i paesi “sviluppati”, tra i quali il nostro, stanno rapidamente perdendo la capacità di produrre ricchezza. Per rendersene conto basta recarsi in qualsiasi negozio per constatare come la stragrande maggioranza dei prodotti non alimentari provengono dall'estero, Cina in primis.
Il mito della crescita infinita dell'economia e quindi della ricchezza è, appunto, solo un mito. La produzione di ricchezza si è ormai spostata verso i Paesi emergenti (Cina, India, Brasile, Vietnam ecc...) e la finanza nei paesi “ricchi” oramai è solo un gigante dai piedi d'argilla, slegata in modo preoccupante dall'economia reale.
Domenico De Masi su La Stampa del 3 gennaio scrive, tra l'altro, che “a Milano un operaio costa 24 dollari, in Brasile 11, in Corea del Sud 4 e in Cina solo 1 dollaro. Il primo mondo, l'Occidente, non serve più: il terzo mondo si produce le cose da solo”. Si capisce quindi che le cose non sono messe bene per noi ma che difficilmente potranno andare meglio in futuro.
L'economista Eugenio Benetazzo (che scrive anche nel blog di Beppe Grillo) sul Fatto Quotidiano del 4 gennaio fa un'analisi dell'economia attuale del nostro Paese, analizzando in particolar modo il ruolo delle banche. Propone una nazionalizzazione degli istituti bancari per evitare che, come succede oggi, gli istituti privati, stretti tra i rischi di insolvenza dei clienti e i vincoli imposti dalla Bce, finiscano per non prestare più denaro né a privati né ad aziende, andando a deprimere sia i consumi che gli investimenti, quindi tutta l'economia. Conclude amaro: “Eravamo poveri. Siamo stati ricchi. Torneremo poveri”.
Meno drastico ma ugualmente serio il monito lanciato da Wolfgang Uchatius sul settimanale tedesco Die Zeit: “Negli ultimi anni le economie dei Paesi avanzati hanno prodotto un benessere fittizio, alimentato da consumi crescenti finanziati con il debito. La crisi ha dimostrato che il sistema così com'è non funziona più. E' arrivato il momento di cercare un'alternativa”. Poche parole di straordinaria chiarezza e veridicità, che rendono bene l'idea della precarietà del nostro benessere.
Il tema al centro del suo articolo riguarda la crisi come effetto del rallentamento della crescita economica, dovuto al calo dei consumi. Dagli anni del boom fino grosso modo agli anni '90, la crescita continua ha garantito la stabilità del sistema economico nonostante i grossi debiti contratti sia da privati che da imprese, banche e Stati. Oggi che il sistema si è “inceppato” propone due soluzioni: “La prima consiste nello stimolare a tutti i costi la crescita per tenere in vita l'economia, com'è successo finora, aumentando la spesa pubblica e di conseguenza i debiti. La seconda […] consiste nel cercare le risposte a domande più impegnative: la società si può organizzare in modo da accontentarsi di conservare il benessere invece di aumentarlo? Cosa bisogna fare perchè sia la felicità delle persone a crescere e non il fatturato delle imprese?”.
Con una classe dirigente emanazione dei gruppi industriali quale potranno essere le risposte a questi interrogativi?
Il nostro tenore di vita è quindi destinato a peggiorare inesorabilmente? Forse si. Ma non è detto che ciò porterà solo conseguenze negative: magari non potremo più permetterci di guidare un suv, non cambieremo il pc o il telefonino ogni due o tre anni, impareremo a fare a meno di cose che oggi consideriamo indispensabili. Dovremo ingegnarci più di oggi per trovare un'occupazione e non avremo mai più le garanzie che molti hanno oggi.
Se ci facciamo caso la trasformazione è già in atto: pensioni, diritti dei lavoratori, diritto allo studio, ecc... molto è stato o sta iniziando ad essere messo in discussione. Anche gli spostamenti stanno diventando un lusso: con la benzina che si avvia inesorabilmente verso i due euro al litro ciascuno di noi dovrà fare più attenzione a spostarsi in macchina. Purtroppo non va meglio ai treni, per i quali lo Stato trova cifre iperboliche per finanziare progetti faraonici e drammaticamente inutili (TAV) per pochi danarosi, mentre la classe produttiva del Paese è condannata a viaggiare su convogli sempre più affollati e con orari incerti.

Movimento 5 Stelle Valsesia